La Vestizione cos'e'? "Un abito fatto su misura"
Testimonianza di Francesca Serreli in occasione della sua Vestizione
26 aprile 2013 Madonna del Buon Consiglio
La parola “vestizione” rimanda all’immagine di un vestito da indossare. Nella parola stessa, però, si nasconde qualcosa di più del semplice gesto di “mettere un abito”.
Mi chiamo Francesca e il 26 aprile ho indossato un abito. L’ho indossato davanti a molti di voi. Lo porto oggi mentre vi scrivo. Questa è l’immagine, ma cosa nasconde? O meglio… cosa mostra e rivela? Il primo pensiero vola dritto alla mia comunità, a questa comunità con la quale condivido le gioie e le fatiche del mio e nostro tempo. Loro sono il primo strato di questo abito. Loro non sono un abito bianco, sono un abito tutto colorato che mostra nei giorni qualcosa di Dio stesso, della sua bellezza, dei suoi tratti. Non solo. Esso porta in se stesso tracce di vulnerabilità, di umanità che sa essere giocosa e rattristarsi, sa cantare e stare in silenzio… che sa di essere sempre “alla ricerca di”. Questo abito che Dio mi sta regalando è un abito che si posa su di me senza stringere. È un “abito fatto su misura”. La mia misura. Madre Veronica, Vittoria, Michela, Claudia, Abir, Clarissa, Elena ed Eva sono questo vestito che prima di “appiccicarsi” alla mia pelle sa guardarmi e vedere come sono fatta.
Il secondo strato siete voi, la Chiesa tutta e coloro che mi sono amici: un abito dalle tinte forti che conosce il valore della presenza. Padri, madri, figli, liberi di ospitare e accompagnare “altri”. Come me. Non siete solo “partecipanti”, siamo insieme: reciprocamente bisognosi e con le porte aperte.
Il terzo strato è quello che più si avvicina alla mia persona intima: è bianco, poiché racchiude il mistero di tutti i colori. È l’abito che meno conosco, è l’abito che in alcuni giorni faccio fatica persino a vedere. Eppure fa luce. L’unica luce che nel punto più profondo di me riconosco come vera, reale. Fa luce anche a me se lo indosso, perché è l’abito di un incontro.
Di questo abito vorrei che un giorno la mia vita parlasse, come raccogliendo una storia.
Il 26 aprile è stato un giorno di festa. Io ero sorridente: sorridente di gratitudine per la bontà di Dio (come chiamarla altrimenti?), sorridente di questo nuovo inizio che come uno spazio bianco s’affaccia alla mia vita pieno di libertà e mistero per ciò che ancora non conosco. Uno spazio che chiede serietà e rischio.
I giorni precedenti alla vestizione mi accompagnava l’immagine di una creatura che “viene al mondo”. Nel venire al mondo c’è qualcosa di conosciuto che si lascia per andare incontro a una nuova forma di vita. C’è un travaglio, una spinta, un mutamento. Ci sono delle braccia pronte a prenderti. Il 26 aprile la casa si è riempita ed era molto bella. Fiori, sculture, musica, canti, invitati. Fratelli e sorelle. Perché? Per accogliere i vagiti di una creatura alla quale Dio, nella sua sapienza, attraverso il Vangelo delle nozze di Cana (dunque attraverso una donna) suggerisce: “Qualunque cosa vi dica, fatela”.
I primi giorni della vita chiedono ascolto.
Articolo tratto dal periodico "Montefeltro" - Anno LIX - n.5 - maggio 2013