Vieni più vicina
Una condivisione fraterna di sr. M. Francesca Serreli sulla sua Professione Temporanea
Iniziare questo articolo non è semplice. Un articolo che descriva cos'è accaduto l'11 aprile nella comunità delle monache di Pennabilli.
Immaginate una sorta di danza, nella quale ciascuna di noi ha avuto una parte, una responsabilità e una consegna, con una regola soltanto: accordare i movimenti le une alle altre. Ovvero: guardarsi, ascoltarsi, starsi di fronte.
Per danzare e permettere di farlo anche a tutte le persone che hanno preparato con noi e per noi questo avvenimento è stato necessario un tocco, una spinta, una voce che dicesse "provate a farlo", poi trasformatasi in un "mi aiuti a farlo?". Una festa non è mai improvvisata, ha sempre una storia alle spalle (e una strada aperta davanti). Ha un perché, ha dei volti dentro...si presenta come una sorta di soglia. Una soglia che, come il letto di un fiume, trattiene in se stessa la ricchezza e i significati del cammino percorso. L'11 aprile siamo entrati tutti insieme in questa soglia. Eravamo su quel filo teso, ricco di storia e di storie, ricco di amicizia ricerca, di luoghi ed esperienze diverse. Sì, era molto evidente: ci siamo presentati con le nostre differenze. Ma quello che una festa dovrebbe fare è proprio permettere che tutti possano godere, anche se per qualche istante soltanto, del bene e della bellezza del trovarsi lì, insieme, dentro ad un perché. La cosa più bella è sentire che c'è un posto per ciascuno di noi. Noi che cerchiamo Dio, noi che non sappiamo ancora se pronunciare il suo nome e come e quando, noi che abbiamo visto nell'amicizia un tesoro da vivere ancora e sempre. Noi che rispondiamo ad un appello. Un posto per noi tutti.
E per preparare quel posto c'è stato bisogno di fare spazio, di fare un passo avanti prima e uno indietro dopo, di non spingere, di vivere il proprio momento: proprio come nella danza.
Vivere e condividere una gioia non ha a che fare con una semplice predisposizione caratteriale. I nostri corpi e il nostro sguardo devono imparare il linguaggio della gioia, devono assaporarlo: solo allora lo sapranno donare e potranno invitare altri a farlo.
Accolgo l’invito a scrivere questo articolo, ma sento che sarebbe molto più vero se ciascuno di noi potesse esprimere quello che ha visto e vissuto, perché il mio sguardo non è che una piccola parte. Non essendo possibile questa polifonia di voci, provo ad esprimere quello che personalmente ho vissuto. Le prime righe già hanno detto qualcosa: io sono stata portata a questa Professione. Nella sedia al centro della chiesa c'ero io, ma era un "io" pieno di "loro". Questa è la prima cosa che mi viene da dire. La seconda riguarda una sensazione che mi ha attraversata durante la celebrazione, ovvero che tante cose sarebbero potute avvenire diversamente. Non potrei descrivere il momento della mia Professione come un momento magico. In casa siamo arrivate a quel giorno e lo abbiamo vissuto con tutte le sfumature del nostro umano: gioia, tanta attesa, stanchezza fisica, tensione, raccoglimento, ma anche fatica nel raccoglimento. Seduta al centro dell’assemblea portavo addosso questa consapevolezza avvertendo l'umanità di ogni singolo istante. Allo stesso tempo, come un dolce battito d’ali dentro di me, percepivo che dentro a quell'umano Qualcuno a voce bassa mi diceva "vieni più vicina", con leggerezza, sorridendo forse di tutte le mie considerazioni interiori.
Spesso durante la messa sono stata con le braccia giù, avendo in mente l’immagine di un padre Agostiniano durante la celebrazione di un Venerdì Santo: un uomo adulto con le braccia giù, a non trattenere. Chi desidera "lasciarsi fare" ha le braccia giù, non deve fare scudo.
Volevo che le mie braccia esprimessero il mio “sì”, come una donna adulta pienamente coinvolta, ma al modo vicino e disarmato dei bambini.
In mezzo ai canti, in mezzo al pianto o ai balbettii dei tanti piccoli presenti quel giorno, davanti agli amici, davanti agli sguardi delle mie sorelle che avrei voluto incrociare per comunicar loro la mia riconoscenza, in questa chiesa che mi ha accolto e accettato,in mezzo a queste voci, persino in mezzo ad un certo "rumore" di fondo, sapevo di dover essere aperta ad una Voce. Questo era il luogo leggero della mia attenzione, il motivo stesso del mio essere lì.
La posizione della sedia in cui ero seduta sarebbe potuta essere diversa, i volti delle mie sorelle più visibili a tutti (nonché a me), mia nipote sarebbe potuta rimanere sveglia invece di addormentarsi durante la processione. Queste “circostanze” sarebbero potute essere anche diverse. Solo un luogo era davvero essenziale, in me e in tutti quelli che avevano la mente ed il cuore aperto: lo spazio e il tempo tra la terra e l'arrivo di un seme. Un seme nel centro di noi e in mezzo a noi.
Per questo l'articolo avrebbero dovuto scriverlo in tanti.
Avrebbero dovuto scriverlo Pietro, Mario, Emma, Ines, Lisetta e tutte le donne che ci hanno aiutato. Khalil e Pierre. Ogni bambino avrebbe potuto dire qualcosa. Gli amici di Montecatini, insieme a Renato e a Michela. Le mie sorelle tutte. I miei fratelli e le loro domande. Le mie amiche Laura e Anna. Le persone con cui ho condiviso tanta parte del mio cammino quand'ero a Torino e che non smettono di dimostrarmi il loro affetto e la loro generosità. Il vescovo Andrea, così attento a tutti, così delicato nel suo modo di far spazio. I miei genitori che "mi hanno vista quando". Noi tutti, insomma. Così a danzare sarebbero state anche le parole e a ciascuno sarebbe giunto il colore e lo sguardo dell'altro. Così ci saremmo accorti di quanta diversità ci sia stata nel vivere quel momento.
In mezzo a tutta questa diversità un seme gettato. Per ciascuno e per me che ho ripetuto tre volte "sì, lo voglio", in quel luogo unico della mia Professione dove saliva leggero l'invito a farmi più vicina.
Povertà, castità, obbedienza. A me che non conosco da vicino la povertà, la castità e l'obbedienza,vien detto: "Sì, lo voglio. Voglio che impari a guardare come io guardo”.
Così inizia questo nuovo cammino e ancora una volta il primo passo è l'ascolto. Con le braccia giù, come i bambini, come gli uomini e le donne che aspettano di sapere qualcosa di nuovo.
Io che non conosco.
Sì, lo voglio.
Francesca
A pagina 11 del periodico diocesano Montefeltro l'omelia del Vescovo Mons. Andrea Turazzi