La cura spirituale: tra empatia e misericordia
Intervento di sr. Abir al Convegno "Una cura (al) femminile" Biella 28 novembre 2015
Il 28 novembre 2015 la Fondazione 3Bi Biblioteca Biomedica Biellese ha organizzato il Convegno "La cura al femminile"; l'argomento è stato trattato sotto vari punti di vista e per la parte "spirituale" è stata invitata sr.Abir che ha portato la propria esperienza di donna e di monaca.
Premessa
Quando sono stata invitata a questo convegno dal prof. Peruselli, oltre allo stupore che mi ha suscitato tale invito, una gratitudine e commozione mi hanno pervaso. Per due motivi che in me sono estremamente connessi e hanno guidato la mia vita e la scelta della vita monastica. Il primo è legato alla mia storia: da bambina spesso stavo male di salute, con tanti ricoveri, per cui era maturato dentro di me il grande sogno e desiderio di “fare da grande” il medico, per guarire e curare gratuitamente i bambini ammalati. Oggi, io non sono medico, eppure mi sento pienamente coinvolta a vivere la cura, sebbene in modo diverso, nei confronti delle persone che incontro. Il secondo motivo è frutto di una riflessione che da diversi anni mi lavora dentro: è il senso della persona e della vita alla luce dell’unitarietà e della relazionalità proprie dell’essere umano. L’esperienza della guerra che ha coinvolto i primi 20 anni della mia vita, mi ha fatto capire come l’essere umano, di fronte al pericolo costante, cerca di estraniarsi dal vissuto del proprio corpo a causa dell’insostenibilità di ciò che gli accade intorno. Facendo così, è come se si trovasse a vivere costantemente dentro di sé su due registri diversi che lo lacerano dentro e lo isolano in modo sottile dagli altri. Entrando in monastero mi sono imbattuta in una proposta di vita e in una riflessione nuova, che fino allora non mi si era mai presentata in un modo così chiaro: la parola “monaco” significa etimologicamente “uno solo”, ma – nell’accezione che ne dà Agostino – non significa “solitario”. Monaco è chi intraprende il cammino della propria unificazione, chi accetta la sfida di diventare “uno”. Nella comunità monastica agostiniana il contesto è quello di una vita fraterna assidua e intensa, in cui è forte la tensione a vivere nell’unità tra diversi. Dove il desiderio di amare con fedeltà la sorella, ti spinge a raccoglierti per superare le frammentazioni che ti porti dentro, il che ti consente di prendertene realmente cura.
Ho trovato, quindi, quanto mai felice la scelta di introdurre una riflessione sulla cura spirituale in questo convegno, che proprio di cura (e al femminile) si occupa, perché ci consente di riflettere sull’importanza del cammino di unificazione dell’uomo e al contempo del suo essere relazionale.
…Perché parlare di cura spirituale?
Ma perché mi soffermo a lungo su questo punto, se non perché il cammino di unificazione in realtà è la sfida di ogni uomo e donna? Se non perché il pericolo delle frammentazioni interne è così presente oggi nella realtà umana? Un filosofo contemporaneo, Ch.Taylor, ha individuato come pericolo effettivo della società contemporanea due elementi: la frammentazione e la massificazione, dove se da un lato la persona si concepisce in termini sempre più atomistici, dall’altro corre il rischio dell’annullamento della sua singolarità nella totalità della massa. Questi pericoli gettano la persona in un progressivo isolamento, o per lo meno, in un allontanamento da una concreta e reale appartenenza alla comunità dove si trova a vivere, e di conseguenza si è meno legati con gli altri da una comunanza di progetti e di fedeltà.
Per esperienza posso dire che il cammino di unificazione inizia con la domanda: “ma io chi sono?”, e quasi sempre, ahimè, questa domanda giunge di fronte alle prove della vita, all’esperienza del dolore morale o fisico, di fronte anche alla malattia. È proprio nell’esperienza della prova/malattia, allora, che la persona – paradossalmente - ha la possibilità di scoprire la sua unitarietà, il senso del proprio esistere e il suo essere fatta per l’eternità. Il “dolore totale” che sperimenta in sé ha la potenzialità di innescare un cammino di unificazione, grazie alle domande di significato che fa sorgere dentro la persona, la quale è in cerca di una speranza più grande e più forte del dolore che non sia l’illusione. Nel prenderci cura delle persone è di tutto il loro mondo interiore che ci si prende cura. E chi si trova accanto è chiamato ad essere custode della speranza, ad essere una “presenza piena di speranza”, testimoniata nel presente della relazione, che rimane, qualsiasi cosa accada, perché in ogni relazione vera è racchiusa una promessa di eternità.
Questo richiede un passaggio - che è già in atto - da un modello di cura centrato sulla malattia a un modello che s’interessa del malato preso in cura come persona, nella sua interezza esperienziale, le sue risorse, i suoi legami affettivi, il suo contesto sociale, la sua fede, in definitiva la sua spiritualità. Se l’empatia permette di conoscere da dentro l’esperienza originaria dell’altro, e può assicurare una piena comprensione del suo vissuto affettivo, tuttavia la cura comporta l’assunzione di una responsabilità più ampia per l’altro, che include l’attenzione al suo cammino di unificazione, ciò che permette di rintracciare il senso della vita, anche quando la malattia può appesantirne o offuscarne l’orizzonte.
Proprio qui s’inserisce la peculiarità del modo in cui la donna si prende cura dell’altro, grazie a delle caratteristiche costitutive e fondamentali del suo essere donna. Edith Stein ne individua alcune, che espose nell’ambito di una conferenza sul valore della femminilità nella società.
La prima riguarda il suo orientamento: l’orientamento dell’uomo è più oggettivo (rivolto ad un oggetto preciso), per lui è naturale applicare le sue forze in un settore specialistico; l’orientamento della donna invece è personale, rivolto alla persona. Questo ha diverse implicazioni. La donna partecipa volentieri, con tutta se stessa, a ciò che fa, ha un interesse particolare per la persona viva concreta, e ciò sia nei riguardi della propria vita personale, sia per le persone estranee o i valori personali di tutti, perché in modo naturale essa avverte che la persona sta all’apice di ogni valore oggettivo, ogni verità è conosciuta dalla persona, ogni bellezza è contemplata, apprezzata dalla persona.
La seconda caratteristica è che nella donna vi è una tendenza naturale alla pienezza e alla completezza. Anche qui è duplice l’implicazione: da un lato la donna desidera sviluppare la sua umanità in tutte le direzioni, e dall’altro desidera aiutare gli altri a fare lo stesso o, in ogni caso, quando deve trattare con persone umane tiene conto di tutta la loro umanità.
Tali caratteristiche sono così pronunciate nella donna grazie alla sua missione naturale di madre e compagna. Essere compagna, ossia offrire sostegno e appoggio, confronto e prossimità. Essere madre, generare e dare la vita, sperare in ciò che ancora non si vede, proteggere e curare, custodire e portare al suo sviluppo l’umanità vera. In questo suo essere madre e compagna la donna diventa ascolto totale dell’altro che le sta di fronte. Chiaramente queste caratteristiche non rappresentano di per sé, così come le offre la natura, un merito particolare, ma convenientemente guidate attraverso un lavoro oggettivo coscienzioso diventano un potenziale d’immenso valore.
Vorrei portare l’attenzione qui su due volti di donne che hanno saputo accogliere la sfida di questo dono naturale che portiamo nella nostra identità di donne: essere e diventare ascolto totale e affermazione della vita dell’altro.
La prima è Etty Hillessum, una giovane donna ebrea morta ad Auschwitz, che ci ha lasciato un diario degno di essere considerato fra i tesori dell’umanità. In esso splende il suo cammino interiore, come uno strepitoso passaggio che l’ha portata da una vita disordinata a diventare essa stessa “amore totale”, che neanche l’orrore e l’odio più distruttivo hanno potuto dissuadere dallo spendersi anche per i suoi carnefici. Così scrive dalla sua prigionia: “Il mio cuore è una chiusa che ogni volta arresta un flusso ininterrotto di dolore (Diario, p. 205) … Ho spezzato il mio corpo come se fosse pane e l’ho distribuito agli uomini”. Ad un amico avviluppato dall’odio per il suo aguzzino, dice: “Non si combina niente con l’odio…in fondo io non credo affatto nelle cosiddette “persone malvagie”. E aggiunge: “Vorrei raggiungere le paure di quell’uomo e scoprirne la causa, vorrei ricacciarlo nei suoi territori interiori, è l’unica cosa che possiamo fare di questi tempi” (pp. 210-211).
Ma la cosa più sorprendente di Etty è il suo desiderio di riscatto e di ospitalità della storia stessa: “Mi sento come un piccolo campo di battaglia su cui si combattono i problemi o alcuni problemi del nostro tempo. L'unica cosa che si può fare è offrirsi umilmente come campo di battaglia. Quei problemi devono pur trovare ospitalità in qualche parte, in cui possono combattere e placarsi e noi dobbiamo aprire loro il nostro spazio interiore senza sfuggire”. E finisce il suo diario dicendo: “Si vorrebbe essere un balsamo per molte ferite”. (pp. 238-239).
Un’altra donna, che ha saputo tradurre queste caratteristiche in termini di cura, è Cicely Saunders, la fondatrice dell’hospice movement che ha come obiettivo il miglioramento della qualità della vita, quando non è più possibile protrarne la durata. Si propone di intervenire sulle dimensioni fisiche, psicologiche, sociali e spirituali della sofferenza (Saunders 2008). Il primo hospice moderno, il St. Christopher, nasce nel 1967 per rispondere alle domande delle persone morenti, domande riassumibili nelle parole che Gesù nel Getzemani rivolge ai suoi discepoli: «Vegliate con me».
È un tipo di presenza connotato da rispetto e attenzione ai singoli pazienti, per comprendere la natura del loro dolore, il tipo di sintomi, e a partire da questa conoscenza, trovare il migliore rimedio per dare loro cura e sollievo. È un “vegliare” che sintetizza competenza e compassione, prossimità senza “con-fusione”. Vegliare con colui che soffre significa molto di più che comprendere che cosa succede, spiegare o allontanare da lui il dolore: significa soprattutto “esserci”, come persone singole e come comunità. Assicurare una presenza capace di alleviare il grande senso d’ingiustizia che le persone profondamente provano quando fanno i conti con la malattia e la morte.
Il cammino della Saunders è stato un cercare Dio per sé e fare in modo di renderne avvertibile la presenza per le persone assistite. Il miglior riconoscimento fu quando una malata disse a uno studente di medicina: “C’è gente che può leggere la propria Bibbia e trova il suo aiuto lì, altri vanno in chiesa e trovano il proprio aiuto lì – ma Lui mi risana in modo differente. Mi manda delle persone” (Saunders, 2008, 85 e 91).
Mi è stato chiesto di portare la mia esperienza di monaca contemplativa agostiniana nell’ambito della cura e vorrei ora provare a condividere con voi ciò che vivo insieme alla mia comunità.
Dio si è affacciato nella mia vita come il Dio dell’Esodo cioè della liberazione e precisamente con queste parole che mi hanno innamorata e cambiato letteralmente la vita, alle quale ho detto di Sì senza esitazione perché ne ho sentito la grande verità: “Ho osservato la miseria del mio popolo in Egitto e ho udito il suo grido a causa dei suoi sovrintendenti: conosco le sue sofferenze. Sono sceso per liberarlo dal potere dell'Egitto” (Es. 3, 7-8). Io mi sono sentita vista, ascoltata, conosciuta e liberata da Dio con questa potenza, ho sentito in modo reale la piena partecipazione di Dio alla mia sofferenza. Da allora il mio desiderio è diventato trasmettere ad ogni persona che incontro l’amore di Dio che mi ha innamorato, ospitando dentro di me la storia dell’altro, i suoi desideri e conflitti, mentre imparo ad ospitare la mia storia con i suoi risvolti. In questo la nostra vita monastica agostiniana mi si è rivelata il terreno fertile dove tutto questo è diventato vita possibile.
Agostino definisce la Comunità Monastica Agostiniana: “Piccola Chiesa nella Chiesa di Dio”, dove nel piccolo della comunità vede il concentrato della Chiesa che è Madre e spazio d’incontro tra Dio e l’umanità. In un discorso ai neofiti, nel momento della consegna del Credo, la presenta così:
“Ecco, l’utero della madre Chiesa, per partorirti, per generarti alla luce della fede, travaglia nelle doglie del parto”. Ho compreso allora che come monaca agostiniana sono chiamata ad essere uno “spazio d’incontro”: grembo e “vaso”! Ho compreso che la Vita Contemplativa Agostiniana è una “Vita Uterina” cioè chiamata ad essere l’utero nel corpo della Chiesa nostra Madre. La nostra missione, più che d’intercessione, è di gestazione, la nostra chiamata è quella di ridurre la distanza fra Dio e l’uomo, promuovere l’intimità fra Dio e le creature.
Ho trovato nell’immagine, forse ardita, dell’utero, il luogo della nostra missione.
Voglio provare a spiegare come.
L’utero è un organo ben nascosto nel corpo della donna, eppure indispensabile al fine della gestazione dei figli e rende possibile la Maternità. Pur essendo molto piccolo, l’utero è capace di dilatarsi per ospitare la vita mentre si sviluppa e prende forma fino al suo compimento. Ecco, la nostra vita monastica si colloca proprio lì, nell’Utero della Chiesa. Nasce e cresce lì e ne diventa parte, ne costituisce quelle pareti capaci di dilatarsi per far spazio alla vita dell’altro. Siamo in qualche modo quell’organo nascosto e circoscritto, che non serve per la vita di chi lo porta, ma per la generazione della vita altrui, è per così dire l’immagine dell’essere totalmente “per”. Una vita appartata, tuttavia segnata dal desiderio di generare vita.
Le persone che incontriamo immettono in noi il desiderio di Dio che li abita, e in noi viene accolto come “ovulo” che attende di essere fecondato dal seme della Parola Creatrice e dalla presenza di Dio. E accade, come sui crocicchi della strada, così in quelli della nostra vita, lo straordinario incontro tra la fecondità della persona e la fecondità di Dio stesso.
Il nostro grembo resta “vuoto” sul piano fisico per dilatarsi a una maternità universale. Perché l’atto della contemplazione è autentico quando ci “si mette a disposizione” senza calcoli, quando il nostro grembo è “Reheb”, cioè si lascia ampliare dalla visione di ciò che è ancora invisibile, cogliendo nelle persone non solo quello che sono, ma anche quello che non sono ancora, sperando contro ogni speranza…proprio come accade per una donna nei primissimi mesi di gravidanza.
E come per una vera gravidanza arriva il tempo del parto, così nella vita spirituale la nascita della nuova creatura passa attraverso l’esperienza tanto straordinaria quanto dolorosa del parto, con le sue doglie e le sue sofferenze. La nascita e la morte si sfiorano pericolosamente nella mente della donna perché il mistero del dono della vita ha in sé qualcosa della morte che va attraversato, e non le resta che mollare, assecondare l’espulsione per continuare a vivere e dare alla luce il suo bambino e sperimentare finalmente quel trionfo del dare la vita che la rende un po’ simile a Dio. Ho ben vivo il ricordo di alcuni passaggi nella mia vita che mi hanno richiesto un vero e proprio parto di me stessa, con tanto di travaglio e senza sconti, ma la vita che ne è scaturita veniva decisamente da Dio, vita risorta. E sono sicura di essere solo all’inizio in questo cammino. È soltanto dopo aver vissuto il parto di se stessi che si può partecipare al parto degli altri. E’ questa la via che porta alla fecondità: vivere accanto agli uomini, soffrendo con loro in ogni loro debolezza, per trasmettere davvero il Verbo della vita fino a far rinascere la speranza e la gioia nel cuore degli uomini.
Dopo il parto, l’utero nel corpo della donna aumenta di peso e cresce di volume, perché la vita che l’ha abitato lascia il suo segno. Lo stesso accade per noi: la nostra vita viene segnata e dilatata da ogni passaggio del Signore e dalle persone che ci affida per ospitarle nel grembo.
Un altro aspetto della vita uterina viene dal nome col quale Dio stesso chiama la sua Misericordia: “RAHAMIM”, un plurale di “rehem”, viscere materne, utero. La misericordia è dunque l’Utero di Dio, da dove ci genera a vita nuova ogni volta che ci allontaniamo da lui. Sperimentare la misericordia di Dio è lasciarsi dire da Lui: “io ti genero di nuovo, tu sei una nuova creatura cosicché quando ti guardo, non vedo più il tuo peccato, ma vedo un figlio!”.
Stare allora nell’utero della Chiesa diventa la possibilità di vivere la libertà di una maternità nei confronti di tutti, senza nessuna esclusione, per i vicini e per i lontani. Cercando di portare in noi, la loro sofferenza e la loro miseria, le loro aspirazioni e il loro anelito. È accettare di diventare madri per chi non trova più uno sguardo che gli dica: “tu sei mio figlio!”. E proprio perché consapevoli per prime di come il nostro peccato non ci abbia separato da Dio, desideriamo che la Sua maternità metta radici in noi e tramite noi raggiunga ogni persona. Il primo atto di Misericordia che ci viene chiesto è l’ascolto, il farsi grembo e luogo dell’incontro. E il nostro ruolo d’intercessione è in realtà questo stare in mezzo, come “grembo” che accoglie il grido, lo assume totalmente in uno stare fiduciosamente di fronte a Colui che ascolta la preghiera.
La potenza creativa della misericordia ci spinge oltre l’empatia o il sentimento di compassione, per qualcosa di più profondo e più radicale, fino ad amare con la stessa tonalità con cui siamo state amate. Interpella la nostra libertà e chiede di incontrare il fratello e la sorella di cui si ha nostalgia e di cui si erano perse le tracce per le rotture che portiamo dentro, ma senza i quali non si può essere se stessi, senza i quali si è amputati, vivi a metà, perché “la vita dell’uno è legata alla vita dell’altro” (Gn 44, 30b). Chi ha scoperto questa verità sa ascoltare il grido dell’oppresso che tante volte è la sorella accanto, sa morire per il fratello perché non ne può tollerare la morte, sa mettere a tacere la sua ira lasciandosi sconvolgere nell’intimo, assumendo gli stessi sentimenti di Gesù perché l’altro possa vivere e sa tenere “insieme” l’altro quando si trova frammentato dentro.
Partendo da questa verità, vissuta all’interno della nostra comunità, accogliamo le persone nella nostra casa con il desiderio di lasciare risuonare le parole di Gesù: “Venite a me, voi tutti che siete stanchi e oppressi e io vi darò ristoro”, e come il Buon Samaritano cerchiamo di rompere il muro del dubbio e dell’egoismo lasciandoci coinvolgere dalla vita di ogni persona, facendoci “prossime”, per prendercene cura, e con Maria dire a Gesù: guarda, “Non hanno più vino…”
…per finire, mi piace concludere con le parole sorprendenti di un uomo, un filosofo italiano(A. Capitini), che ha saputo cogliere e assumere un aspetto profondo dell’atteggiamento femminile:
“Io penso che sempre nei riguardi di un essere umano debbo richiamarmi a un punto interno in cui io mi senta madre di lui; penso che debbo aiutarmi a costituire costantemente questo atteggiamento nel mio intimo”.